Secondo quanto affermano gli ultimi dati compiuti all’interno del monitoraggio svolto dall’Autorità nazionale anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, in Italia il 60% dei contratti pubblici viene affidato in maniera diretta, senza ricorrere a specifica gara. Gara d’appalto che, ad ogni modo, non sembra nemmeno poter costituire una sfera di protezione assoluta dai rischi di corruzione, contribuendo pertanto a dipingere un quadro ancora più scuro che, trasversalmente, colpisce dall’affidamento diretto all’appalto pubblico.
Ma come si arriva a un elevato livello di corruzione negli appalti pubblici? E quali sono le proposte formulabili per cercare di attenuare un fenomeno mai risolto?
Cercare di rispondere ai quesiti posti al termine del precedente paragrafo non è semplice. Una cosa sembra tuttavia esser certa: la stratificazione delle norme attuate all’interno del mercato nazionale, unitamente a qualche passo relativamente incerto del legislatore nazionale, ha finito con l’alimentare una vasta serie di meccanismi di varia solidità ma, comunque, mai troppo permeabili al fenomeno della corruzione.
Nel tentativo (invero, arduo) di sintetizzare le determinanti alla base della corruzione negli appalti pubblici, è recentemente risalita alla ribalta la nota formula di Robert Klitgaard, ex presidente della californiana Claremont Graduate University, secondo cui il livello di corruzione dipenderebbe dalla diffusione di rendite legate alla presenza di poteri monopolistici che possono essere esercitati dagli agenti pubblici, dal grado di discrezionalità con cui è possibile decidere l’allocazione ai privati dei diritti di proprietà sulle stesse rendite e – inversamente – dal livello di circolazione delle informazioni sul processo di allocazione, e dal c.d. “vincolo di responsabilizzazione” degli agenti pubblici (influenzato a sua volta, ad esempio, dalla severità delle sanzioni).
Sulla base di tale sintetica formula, è quindi possibile cercare di sintetizzare ulteriormente le ragioni di una così ampia diffusione della corruzione, indicando nelle elevate rendite offerte da agenti pubblici che operano con criteri discrezionali, e scarsi controlli, le determinanti di quanto sopra.
Ad ogni modo, quanto precede non è sufficiente per definire il fenomeno italiano della corruzione negli appalti pubblici. Un contributo non può che essere attribuito anche a uno scenario di non particolare incisività dell’elenco degli strumenti a disposizione del legislatore italiano che, se da una parte hanno positivamente apportato delle novità allo scenario anti-corruttivo, dall’altra parte hanno fallito parzialmente i propri obiettivi, costituendo un ambito di complessità e di sovrapposizioni.
L’auspicio più presente è ora quello che le direttive comunitarie in corso di recepimento da parte del legislatore italiano (che ha ancora un anno di tempo per poter lavorare a un documento normativo utile) possano ispirare la realizzazione di un nuovo Codice degli appalti in grado di difendere il principio della legalità e della trasparenza dalle cattive prassi quotidiane. Un obiettivo arduo e ambizioso ma, mai come in questo momento, irrinunciabile.